sabato 13 aprile 2013

Il mio nome è

Mi ero girato di scatto, volgendo lo sguardo verso il lato opposto della strada: una donna continuava a urlare il mio nome, a urlare di tornare indietro, a urlare di stare attento alle macchine. Ero confuso, perché non solo stavo camminando sul marciapiede, e non capivo per quale motivo dovessi prestare attenzione al traffico delle nove di sabato mattina, ma per di più - per quanto strizzassi gli occhi nell'intento di identificarne la sagoma - ero ben certo di non conoscere quella signora. Guardai attorno a me, per capire se qualcun altro fosse il destinatario di quegli imperativi, e - non essendoci anima viva - non potei che farmene una ragione e convincermi che, sì, dovevo essere proprio io. I dubbi continuavano a solleticarmi anche nel momento in cui stavo per attraversare e andare a giustificare l'origine di tutti quei decibel, ed ero sulle strisce pedonali in attesa del verde quando la verità si svelò essere molto più banale di quella che avevo già iniziato a dipingermi in testa. In rapida successione, avevo pensato che quella donna fosse: 1) la stalker che mi bombardava di telefonate e lettere anonime; 2) una sensitiva che stava cercando di salvarmi da un doloroso destino; 3) una compagna del liceo che, riconosciutomi da lontano, stava ponendo un eccesso di enfasi sul nostro incontro a vent'anni dalla maturità; 4) una perfetta sconosciuta che aveva trovato un documento appena smarrito (e a suffragio di questa teoria, avevo iniziato a guardare nel portafoglio alla ricerca del pezzo mancante); 5) una prostituta che, in stile venditrice di mercato rionale, stava cercando semplicemente di attirare la mia attenzione, urlando il primo nome che le era venuto in mente. E proprio mentre confutavo e scartavo ciascuna ipotesi, stiracchiando la razionalità ben oltre il punto di rottura, vidi un gatto rosso corrermi incontro, la donna distaccata di qualche metro, ansimante dietro il felino; sentii urlare un'ultima volta il mio nome, poi ci fu un rumore di frenata pazzesco e un botto, come di ossa e carrozzeria che si scontrano. La donna rimase sospesa in aria per un tempo che ancora adesso mi sembra un'eternità, il cappotto aperto in modalità vela percossa dal vento, le scarpe che si allontanavano dai suoi piedi in direzioni opposte, la borsa che esplodeva il contenuto sull'asfalto. La macchina che aveva arrotato la donna proseguì la marcia, svoltando repentinamente a destra, verso l'imbocco della tangenziale. Riuscii a individuare a stento il modello, non a vedere il volto dell'autista né il numero della targa. Il traffico, intanto, si era intensificato, e a nessun automobilista sembrava interessare le sorti di quel corpo a cavallo della linea di mezzeria, si limitavano semplicemente a scansarlo. Solo un ragazzo in motorino si fermò, ma per rubare la borsa e gli effetti sparsi qua e là che potè raccogliere nella manciata di secondi prima che il semaforo scattasse. A dire il vero, non è che avessi troppa voglia di intervenire, un po' perché mi fa impressione il sangue, un po' per indolenza. Troppo sbattimento per un sabato mattina. Restavo là, sulle strisce pedonali, in attesa che un essere umano di buona volontà - ma anche un cane, un corvo o una navicella aliena - prestasse soccorso a quella specie di sacco buttato sulla strada. Mi limitavo ad allenare il mio pensiero magico - Alzati, dai, su su, alzati, alzati e cammina, dai, togliti dalla traiettoria delle ruote, non incasinarmi il giorno di riposo, alzati, su su - nel quale stavo riponendo, lo riconosco, una fiducia a dir poco smisurata. Traccheggiai per qualche minuto ancora, poi presi atto che quella donna non voleva saperne di rimettersi in piedi, e andai a fare colazione al bar: a stomaco pieno, avrei preso la decisione giusta. No, non è vero. Cioè sì, andai al bar - Una brioche alla marmellata e un caffè lungo, per favore - ma solo perché ero convinto che quella sconosciuta fosse morta e che, con il corpo martoriato e l'eternità davanti a sé, potesse almeno concedermi la possibilità di un breve ristoro; se poi, nel frattempo, qualcuno si fosse fatto carico di sbrogliare quell'increscioso contrattempo, mi avrebbe solo sollevato da un'incombenza troppo grande per me e per il mio sabato mattina.

"Sei una merda."
"Ma no, amore, non capisci. Ero convinto che fossi morta."
"Non ti sei nemmeno avvicinato per capire se respirassi ancora o no. Mi hai lasciato là, alla mercè del traffico. Avrebbero potuto ridurmi in poltiglia, mentre te ne stavi beato al bar."
"Vero, ma è il risultato finale che conta. Sei viva e vegeta, bella più che mai."
"Sì, sì, fai pure il ruffiano adesso."
"No, quale ruffiano. Ti ho salvato la vita, è tutto quello che sai dirmi?"
"Taci, va'. Sei persino andato in ferramenta a comprare una pala, la tua idea geniale era quella di seppellirmi nei giardinetti ai bordi della strada. Se non fosse stato per quei bambini che si sono messi a strillare, ora sarei concime per aiuole."
"Tesoro, così mi sminuisci. Ho faticato non poco nel trascinarti per tutti quei metri, ho iniziato a scavare la buca perché pensavo di metterti comoda, sulla terra morbida, in attesa dei soccorsi."
"Che non hai chiamato."
"Avevo il cellulare scarico, quante volte te lo devo ripetere?"
"E allora come pensavi di farli arrivare?"
"Con il mio pensiero magico, te l'ho detto. Ho pensato intensamente Ambulanza, Ambulanza, Ambulanza, finchè non ne è arrivata una."
"Chiamata dalla madre di uno dei bambini."
"Dettagli. Ti ci perdi sempre dietro, trascurando il quadro generale."
"Sarà..."
"E'... Dai, adesso smettiamola di rivangare il passato, facciamoci un po' di coccole."
"Sì. Stringimi tra le tue braccia, mio eroe."
"Così mi piaci. Senti, amore, te lo posso infilare ancora una volta nella ferita che hai sul fianco? Mi piace così tanto."
"E va bene. Però stai attento a non farmi saltare tutti i punti come l'ultima volta, ché mi hai quasi fatto uscire l'intestino di fuori. Poi ci parli tu a quella checca isterica del dottore."

Buffa la vita, penso mentre mi pulisco con un fazzolettino e accendo la sigaretta del dopo. Un gatto rosso col mio stesso nome scappa di mano alla sua padrona che lo stava portando dal veterinario a sterilizzare, dando origine a tutto questo casino. Io faccio il possibile per scansare ogni responsabilità, in un sabato mattina qualsiasi che credevo uguale a tutti i precedenti e a quelli a venire, e mi ritrovo nel letto una donna, la più bella che mi potesse capitare. La prima, anche, a essere sincero. E lei mi ama, perché l'ho salvata. Avrei potuto fare di più, è vero, ma non c'è spazio per i rimpianti adesso. Sì, non ha braccia né gambe, perché i soccorsi sono arrivati tardi, ma la sanità è quella che è da queste parti. Ci hanno provato subito a mettere le mani avanti ("Se fossimo intervenuti tempestivamente, ora la signora avrebbe tutte le cose al suo posto"), ma li conosco io questi figli di gran cagna, ci campano sui sensi di colpa altrui, con l'assistenza psicologica a pagamento e menate del genere. Dico solo che se mi ama, io la amo, a me va bene così. Finchè non le guarisce la ferita sul fianco, almeno. Poi, poi vedremo. Intanto esco a cercarle il gatto, ché è da quel giorno che non si trova. E mi fa due palle così. Non so mai se, quando chiama il mio nome, è me che vuole oppure sta pensando a quella carogna rossa. Perché, a pensarci bene, la colpa è sua che è scappato. Sì. Ma tanto io dico che lo vado a cercare, così me ne sto in giro, guardo le tipe per strada, entro e esco dai bar, e se lo trovo bene, altrimenti mi siedo, come sempre, su una panchina e attivo le mie potenti onde cerebrali. Se non è sordo o scemo, verrà lui da me.

Gatto, gatto, gatto.


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