Ore 19,56: mancava meno di un'ora al fischio d'inizio. Avevo avvisato tutti i potenziali scocciatori: madre, padre, sorella e persino la nonna novantenne.
- Ciao nonna, sono io.
- Zio?
- Io, il tuo cocco.
- Zio Rocco? Zio, mi stai forse chiamando a te? Ah, e va bene. Finisco la minestra e arrivo.
- Sono io, il tuo unico nipote, nonna. Ti sto chiamando per evitare che tu chiami me. Metti sul canale 28, che c'è la replica della messa di Lourdes. Una volta che è finita, vai a dormire. Ci vediamo domani, buona notte.
Ore 20,30: mancava un quarto d'ora e, imbottito di valeriana il gatto per prevenirne ogni possibile intemperanza, nessuno più avrebbe potuto rompermi le scatole. Per novanta minuti sarei stato latitante. Ectoplasma. Nemmeno i corpi speciali anti-mafia o i migliori medium mi avrebbero potuto stanare. Soltanto i vicini, a tratti, avrebbero ricevuto segnali della mia esistenza, sotto forma di bestemmie o di urla di giubilo; ma a questo c'erano abituati, e io - in tutta sincerità - sopportavo da loro ben di peggio.
Alcuni momenti della vita di un uomo sono talmente trascurabili che le intromissioni non solo vengono perdonate, ma anzi sono quasi accolte come una benedizione: la dichiarazione d'amore di un ex fidanzato urlata in chiesa alla promessa sposa, poco prima del sì; la telefonata del capo mentre stai assistendo alla nascita del primo figlio; la visita inattesa della suocera, quando stai per uscire di casa la domenica mattina, per andare all'Ikea a cercare l'ennesima poltrona da fare sventrare al gatto di cui sopra. Altri, invece, non hanno guance da porgere, sono privi di sentimenti e non ammettono invasioni di campo né interruzioni: la seduta defecatoria dei giorni di riposo, quella da un'ora e mezza, con le gambe che perdono di sensibilità a ogni pagina di giornale (o libro) letta; la gioiosa macchina del sesso, sia nella versione "meglio solo" che in quella "male accompagnato"; la partita della squadra del cuore, non importa se in tv, allo stadio, in radio, in differita, a fumetti o mimata attraverso la lingua dei segni.
Quando squillò il telefono, alle 20,42, le squadre stavano entrando in campo. Non risposi, e mi rifiutai persino di guardare sul display chi stesse guadagnando il gradino più alto del podio dei rompipalle. L'arbitro lanciò la monetina in aria, io stappai la seconda birra (la prima se n'era andata durante l'attesa) e.
Due anni, otto mesi e ventisei giorni prima: un abbraccio stretto, di quelli in cui vorresti trasformarti immediatamente in una statua di sale per non allentare più le braccia e restare così, nei secoli fedele; un bacio di commiato, forse l'ultimo, forse il primo di una lunga serie; infine, tu e lei che prendete la stessa via, ma in due direzioni opposte. L'ultimo ricordo di quell'istante, prima che lei svoltasse l'angolo e sparisse definitivamente dal mio campo visivo, sono le lunghe gambe nude e il gonnellino svolazzante, e la mia voce interiore che continuava a ripetere "Se mi ami, voltati".
Tra il fischio d'inizio della partita e i due anni, otto mesi e ventisei giorni precedenti, il nulla. Un po' come se a "Houston, abbiamo un problema" fosse seguito il silenzio cosmico, senza nemmeno il gracchiare di una radio che ha perso il segnale. Zero fratto zero. E non credo tanto perché quella volta non si fosse girata, per un ultimo sorriso o un bacio soffiato dalle labbra; no no, avevo avuto a che fare proprio con una zoccola seriale. Eh sì, ora si potrebbe aprire l'ormai consunta digressione sull'accezione maschilista del sostantivo "zoccola", sul fatto che un uomo ferito nell'orgoglio e nei sentimenti si ritrovi a corto di argomentazioni, e - essendo incapace di fare autocritica e di riconoscere la propria parte di errori - chiuda ogni possibilità di dialogo sull'argomento sigillando il tutto con quella parola là; o con uno dei suoi sinonimi a scelta. Si potrebbe, certo; non in questa vita, però, ché - nonostante tutta l'autocritica di questo mondo - non mi vengono in mente altre parole, se non sempre e solo quella là. D'altronde, non vedo come si possa definire altrimenti una che sparisce per così tanto tempo e riappare, tra milioni di attimi a scelta in cui avrei voluto sentirla, proprio in quello in cui anche il peggior nemico ti lascerebbe in pace, non fosse altro che per gufare contro la tua squadra.
La partita era alle schermaglie iniziali, la birra scendeva piacevolmente giù per il gargarozzo e. Dall'altra parte della casa - lontano da occhi e orecchi, lontano dal cuore - il suo numero continuava a lampeggiare sul display del telefono. Cioè, non sapevo ancora che fosse il suo; ma c'era comunque un presentimento di carestia e morte nell'aria. Presentimento reso ancora più lugubre dal gol della squadra avversaria al minuto diciassette.
E non so come dirlo, e un po' me ne vergogno. Mi sentivo come ai tempi dell'università, quando credevo di passare gli esami grazie a un abbinamento magico di camicia, maglione, pantaloni, calze e mutande, tanto da presentarmi a ogni appello vestito sempre nello stesso modo, a prescindere dalle stagioni; perlomeno finché i reiterati tentativi a vuoto di passare diritto commerciale mi convinsero della necessità di studiare in modo meno superficiale e l'estate più torrida degli ultimi trecento anni mi indusse a dismettere il maglione grigio a trecce, in favore di una banalissima polo blu. La mia squadra del cuore stava perdendo, schiacciata nella sua metà campo dagli odiati rivali, e non dava segnali di reazione: gambe molli, idee confuse, palle sparate in avanti alla S.I.D. (Spero in Dio) e nervosismo diffuso. Dovevo fare qualcosa, e in fretta. L'equilibrio dell'universo di quel preciso istante doveva essere spezzato da un gesto inconsueto, che nessun uomo di sana e robusta costituzione avrebbe mai compiuto. Mi alzai dalla sedia e, senza staccare gli occhi dal televisore, camminai a ritroso in direzione del telefono. Senza badare a chi, risposi.
Il telefono, la sua voce. Iniziò a parlare seguendo un flusso di coscienza di cui persi presto il filo logico, ma che non interruppi, perché al minuto quarantaquattro la mia squdra aveva pareggiato. GOL! Il sacrificio stava dando i primi frutti. Inutile dire che tutte quelle emozioni mescolate, quegli amori pericolosamente sovrapposti, mi stessero fiaccando l'anima e intrecciando lo stomaco; ma - soffrire per soffrire - tanto valeva farlo per un buon proposito. E poco importava che dall'altra parte del telefono mi stesse colando nell'orecchio una quantità tale di merda da mandare in tilt l'impianto fognario di una città come New York. Il mio undici settembre (maleodorante) per un gol.
Gol, quello del raddoppio nostro, che per inciso arrivò al minuto cinquantatre. Stavo sempre peggio, ma la squadra era in vantaggio, con un piglio così feroce da lasciare increduli. Poi, al minuto settantotto, l'imprevedibile: lei pose fine alla telefonata. Terrore. Liberatasi di ogni zavorra interiore e non trovando in me un interlocutore soddisfacente, aveva pensato bene di incrinare l'asse terrestre con un clic; e, a quel punto, con il terreno in discesa, per gli avversari fu un gioco da ragazzi pareggiare. Minuto ottanta.
Decisi di richiamarla, anche se ero consapevole che non fosse proprio la stessa cosa. Un conto era assecondare il destino, un altro era andarsi a cercare rogne. Comunque, per farla breve, lei non rispose e.
Autoscatto al minuto ottantaquattro: mani sul viso in segno di disperazione e bestemmie (per inciso, le bestemmie non dovrebbero vedersi in foto, ma quella volta apparvero sotto forma di macchie scure, come di sensore sporco). Titolo: ***** ***.
Gli avversari erano passati nuovamente in vantaggio. Tre a due. E sul medesimo risultato, la partita si concluse.
Un mese e una settimana dopo, lei mi richiamò. Ero allo stadio, stavamo vincendo tre a zero dopo appena venti minuti e, vedendo il suo numero, un'ansia profonda mi assalì. Cosa fare? Alla mia destra c'era Budello, alla mia sinistra Strozzapreti, non proprio due saggi in materia d'amore e equilibri universali.
- Rispondi e mandala a fare in culo -, disse Budello, rafforzando il concetto con un rutto. E sarei pure stato d'accordo con lui, se solo Strozzapreti non m'avesse strappato il telefono di mano per lanciarlo in testa all'arbitro (complimenti alla mira) che ci aveva appena fischiato un rigore contro.
Risultato finale: tre a tre, trasformato in zero a tre a tavolino dal giudice sportivo; commozione cerebrale e stagione finita per l'arbitro; processo per direttissima e DASPO per Strozzapreti.
Io, accusato inizialmente di concorso esterno in lancio di materiale telefonico su manto erboso atto alla pratica del giuoco calcio, me la cavai con il semplice esborso necessario all'acquisto di uno smartphone nuovo; e tanta sete di vendetta.
C'era un film che lei non avrebbe perso per nulla al mondo: "Ghost", storia di amori defunti, possessioni e vasi di creta. Nonostante ne conoscesse il copione a memoria e persino gli stacchi pubblicitari, il solo fatto che tutte le volte le facesse sgorgare dagli occhi delle lacrime - e non gocce di acido muriatico -, la faceva sentire una donna per bene e dai buoni sentimenti.
Bastava semplicemente aspettare e, prima o poi, sarebbe arrivata la serata in cui lo avrebbero trasmesso nuovamente.
E arrivò, un martedì sera di dicembre.
La chiamai poco dopo la sigla d'inizio. In realtà ero certo che non mi rispondesse, come da sua consueta attitudine, quindi è facile intuire il grado di stupore che mi fece formicolare lo stomaco al suo
Pronto. Non ricordo bene cosa farfugliai di preciso, posso però testimoniare quanto segue:
- Sam e Molly stavano camminando verso casa, quando Willy Lopez apparve con le peggiori intenzioni (
e fin qui);
- gli eventi sembravano prendere una brutta piega per la giovane coppia di innamorati, minacciata dalla pistola dal rapinatore (
e fin qui);
- Willy Lopez si accasciava a terra, crivellato di colpi da un certo Carlito Brigante, apparso dal buio di una stradina secondaria (
colpo di scena);
- "Muori Patchanka, bastardo traditore", diceva Carlito con voce ampollosa da eroe, mentre Sam e Molly - rilassando gli sfinteri dopo l'attimo di paura - prendevano a limonare felici sotto la scritta THE END.
Tempo di durata: venti minuti scarsi. Zero dramma, zero lacrime.
- Ehi, sei ancora lì?
- Sì. Ma... ma... non capisco. Devono aver montato male la pellicola.
- Probabile. Posso dirti una cosa?
- Certo.
- Sei una zoccola. Non osare chiamarmi mai più.
E il mio clic fu così carico di enfasi e di giustizia divina che non solo la mia squadra vinse lo scudetto, ma quel buonanima di Patrick Swayze tornò in vita e girò da protagonista, in forma come non lo era mai stato in precedenza, "Ghost II" (regia di Al Pacino).
Da allora, ogni volta che nevica, piscio una V sul manto bianco.